I non-vedenti sono gli esperti dell’invisibile e arricchiscono la società con la visione di vita particolare che offrono (Lusseyran, 1963). Quest’affermazione positiva dell’autore e filosofo francese ha impresso in me, fin dai primi anni della mia cecità di bambino, l’accettazione della perdita della vista e mi ha aiutato nella sua elaborazione.
Credo e sostengo che ciascuna forma di esistenza minorata abbia un contributo specifico nella società: incontrare e confrontarsi con “esseri umani imperfetti ed anormali” consente ai “sani” di riconoscere la propria fortuna, li aiuta a diventare più contenti nonché a relativizzare se stessi e la propria visione di vita.
La dedizione verso i più deboli, la stima e la dignitosa accettazione del loro essere aiuta ad essere ed a diventare più umani. Spesso è difficile nell’incontro evitare di paragonare, accusare e tralasciare apprezzamenti negativi; i sentimenti di colpa e di vergogna sono esperienze frequenti per i disabili (Schmugge, 1999) e i loro familiari. Proprio il tentativo di restituire ai “più deboli” la loro dignità e umanità rende “più uomini” i “più forti” (Tutu, 2001). Inoltre, per l’individuo e per l’umanità intera la reciproca integrazione con persone portatrici di handicap è una sfida preziosa: “accogliere il prossimo ci rende più umani” (Tutu, 2001).
Il proprio handicap e il suo superamento da parte mia nonché l’handicap del paziente sono fattori caratterizzanti il processo terapico, sia in forma diretta che indiretta, tematizzata oppure soltanto vissuta.
La persona che si avvicina a me si lascia condurre in un mondo che comprende cose conosciute e cose sconosciute, in un mondo fatto da un’altra cultura percettiva, un mondo in cui dominano valori e mentalità diverse. Questa differenza è una sfida e allo stesso tempo invito a sentirsi, nonostante tutto, uguali: “è diverso proprio come me!”.
La mia stessa fragilità in determinati momenti è spesso rassicurante per le persone portatrici di handicap e le aiuta a non sentirsi inferiori. Talvolta è invece anche motivo di insicurezza e sfiducia e un invito ad affidarsi allo straordinario; un ostacolo per i pazienti paurosi ma il cui superamento positivo diventa una conquista.
Si intensifica la fiducia in se stessi, il superamento di paure e la forza di autoguarigione. Nel diventare terapisti, la sofferenza personale e l’esperienza del dolore sono parti integranti della maturità umana, utili quanto la formazione tecnico-professionale (Vörkel, 1999). Nel corso della mia esperienza ciò, a prescindere da qualifiche professionali, ha assunto un significato centrale nel giungere ad un equilibrio tra il rapporto terapico e la fiducia primaria verso la vita.
Nel processo musicoterapico come vivono i bambini questa situazione? E gli adulti? Quali sono gli effetti positivi per loro? Quali sono le difficoltà ed i limiti che emergono dalla mia cecità? Come percepisco me stesso con il mio “non vedere” nella situazione terapica? Il testo che segue cercherà di rispondere a queste domande mostrandone luci e ombre.
La mia cecità nell’incontro con i bambini
I bambini che vengono da me per la musicoterapia hanno già sentito in precedenza dai genitori che io sono non-vedente. Se sono piccoli, cioè fino ai 6 anni, non sembra non riescano ad immaginare cosa significhi la parola “non-vedente”; sanno soltanto che con me c’è qualcosa di diverso.
Il primo approccio, da entrambe le parti, inizia con un po’ di timidezza; il contatto vero e proprio deve ancora nascere e il rapporto scaldarsi per portare ad una fiducia reciproca. Non è immediato né automatico che il rapporto sia positivo e che ci interessiamo e ci affasciniamo reciprocamente. Tutto ciò è ovviamente nella natura del fenomeno relativo all’instaurarsi di un rapporto, ma qui si associa anche il contatto con un mondo nuovo: con il non-vedente.
Al riguardo osservo che i bambini amano studiarmi e sperimentare come poter condividere con me la curiosità e la voglia di giocare insieme. Tuttavia, nel contesto il vedere o il non-vedere non sembrano avere un significato primario, né costituire un problema e raramente è tematizzato in forma diretta.
Una bambina autistica di 7 anni, ad esempio, mostra a sua madre che con me ha vissuto un qualcosa per il quale si è messa le mani davanti agli occhi ed ha utilizzato la lingua dei gesti; per lei io sono semplicemente colui che non vede.
I bambini sebbene sappiano che io non vedo talvolta reagiscono come se vedessi. In effetti i miei occhi sono aperti, vivaci e sembrano osservare. Per questo, ad esempio, Marco senza indugi mi porge un pezzo di carta e una matita invitandomi a disegnare qualcosa sul tema della vocale “O”, che stiamo appunto esplorando. In questo caso per me non è difficile rispondere all’invito, mentre lo sarebbe disegnare effettivamente o commentare i disegni altrui. Di fronte al disegno di un bambino infatti cerco una via di uscita ponendo a lui stesso delle domande.
Questa comprensione naturale nel gioco infantile è espressione della grande flessibilità e imparzialità dei bambini: per loro essere non-vedenti non significa automaticamente non saper disegnare o non saper scrivere. Quest’apertura è proprio ciò che mi serve per entrare in contatto; un aiuto oltretutto ad aggirare in modo creativo e completamente funzionale le loro stesse difficoltà. Mi rapporto a loro come sono, mi occupo degli interessi e delle capacità presenti e da lì sviluppo un dialogo gestaltico rispettando il piano di stimolazione.
Con l’intensificarsi del nostro rapporto emergono modalità tipiche di interazione:
- la voce e la lingua verbale vengono utilizzate più frequentemente;
- nasce un contatto e un dialogo corporeo reciproco comunicato attraverso gesti intenzionali;
- nasce l’attenzione verso di me ed i miei movimenti e da qui un approfondimento percettivo relativo alla nostra organizzazione spaziale e il riconoscimento di noi come individui distinti che fanno qualcosa insieme;
- si approfondisce l’ascolto e il tatto in generale.